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Breve reportage della Gran Fondo Il Lombardia 2022 – prima parte

Alle 7 di domenica 9 Ottobre, in Corso Europa a Cantù – luogo di partenza della Gran Fondo Il Lombardia – non solo piove, diluvia.

I 1700 partecipanti sono schierati in griglia e attendono l’ora del via formando quello che visto da fuori sembra un gigantesco patchwork multicolore, fatto da centinaia di mantelline, manicotti, gilet, copricaschi, illuminato dalle luci posteriori delle biciclette che bucano l’aria ancora scura.

Aspettano il via per iniziare questa piccola impresa lunga 111 km con 1700 metri di dislivello che li porterà a scalare due tra le salite più famose del mondo.

Aspettano, nell’atmosfera resa ancora più elettrica dall’altissimo tasso di umidità, finché gli speaker scandiscono il conto alla rovescia e si parte.

I primi scappano via subito, come sempre.

Chi scrive ha imparato a proprie spese che tutto c’è da fare in una Granfondo tranne che farsi tentare dal ritmo forsennato di quelle sirene; meglio, molto meglio, anzi fondamentale, trovare il proprio di ritmo, farsi sfilare fino a farsi raggiungere da un gruppetto in cui si sta comodi, specie all’inizio, specie dovendo poi affrontare tratti molto impegnativi.

Dopo pochissimo comunque tutti, dai primi agli ultimi, si accorgono che oggi anche stare in scia – la comfort zone per eccellenza del ciclismo – non sarà così confortevole.

Più si sta vicino a chi si ha davanti meno aria si prende, certo, ma così facendo si dovrà accettare che l’acqua non arriverà più solo dall’alto ma anche dal basso, in quantità anzi molto maggiori, sollevata dallo pneumatico che si ha di fronte, come fosse la ruota di un mulino.

Dunque, scia o non scia?

Chi scrive adotta una salomonica via di mezzo.

Scia – mai abdicare del tutto alle buone abitudini – ma stando un po’ scostati di lato, lasciando così un occhio in balia dell’incessante schizzo della ruota del mulino ma al contempo cercando di tenere l’altro, per quanto possibile il quelle condizioni, all’asciutto.

Trovato il proprio gruppetto con giusto ritmo e il metodo per stare in scia senza annegare è già quasi ora di imboccare la salita di Sormano.

Non il famoso Muro, la salita che c’è prima.

Perché forse non tutti sanno che il Muro di Sormano non inizia come quasi tutti gli altri muri del mondo dalla pianura, non si può cioè prenderlo di slancio, nemmeno nei primi metri, perché si tratta in realtà è della parte finale di un’ascesa che parte cinque chilometri più in basso e con pendenze a tratti tutt’altro che banali.

Comunque, ad un certo punto al famoso Muro ci si arriva.

E appena lo si imbocca si capisce perché davvero è uno dei luoghi più straordinari del ciclismo, in cui tutto ciò che rende straordinario questo sport si condensa in meno di duemila metri e rimane poi per sempre nei ricordi di chi lo affronta.

Oggi in particolare, aggrappati al manubrio per non farsi disarcionare dall’asfalto che sale al 20, 25%, sempre seduti perché il terreno viscido impedisce di alzarsi sui pedali, scalare il Muro diventa un esercizio di meditazione più che sportivo, in cui si sale chiusi dentro la propria bolla resa ancora più densa dalla nebbia, controllando il respiro e dosando lo sforzo, non una pedalata di più per non finire fuori giri, non una di meno per non mettere il piede a terra.

E mentre si sale così, come dentro una specie di trance, si ha tutto il tempo di notare tutte le foglie adagiate sull’asfalto dalla pioggia di questa mattina, e si potrebbe quasi contarle una ad una.

Foglie morte, certo. Eppure, in quel momento, sembravano così vivide.